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Quando un film invita ad una riflessione sulla comunicazione empatica

DI PAOLA DE PAOLIS FOGLIETTA

Perché non dovete guardare “Parola di Dio” di Kirill Serebrennikov?

Come vi sentite quando venite a conoscenza dai notiziari che esseri umani sono stati uccisi senza una ragione oggettiva (guerra, incidenti, malattie) e senza potersi difendere, da psicotici che dicono di farlo in nome di Allah?

Focalizzatevi su quella emozione, perché guardando questo film sarà la stessa dall’inizio alla fine.

La storia è ambientata in un paese non precisato della Russia, in una scuola superiore. Il protagonista uno studente ribelle, che anziché andare contro al conformismo della società di massa stereotipata, impone in modo dissacrante e aggressivo la parola del vecchio e nuovo testamento cristiano, citandola ogni volta che apre bocca. Diventa il castigatore della libertà sessuale e della spiegazione scientifica (darwiniana) della realtà e dell’origine. Un piccolo fanatico che si rivela concretamene pericoloso per via della sua visione coercitiva e manipolatoria e il tipico delirio di onnipotenza, da sociopatico.

Il suo mondo circostante fatto di madre, insegnati, preside, il prete ortodosso e persino la comprensiva e moderna insegnate di biologia sono altrettanto sconcertanti e biasimevoli, per la mancanza di vere ragioni, di forza interiore, di ispirazione concettuale e spirituale in senso più ampio. Con una parola: mancanza di umanità, di vera comunicazione empatica.

Lo studente integralista e tutti gli altri nei loro vari ruoli quindi si muovo nello stesso piano bidimensionale, come figurine delle ombre cinesi mossi dai fili di uno schema a priori. Quello religioso, quello intellettuale, quello del ruolo, quello infine della propria e sola visione prospettica sulla realtà. Tutte queste persone come personaggi di un racconto allegorico, vanno avanti lungo la propria direttrice schematica, senza entrare in contatto l’uno con l’altro, senza provare a guardare gli altri da un altro punto di vista che non sia il loro, inscenando così un triste e disumano esempio di claustrofobica autoreferenzialità.

Se vogliamo cogliere un significato da portarci a casa, dopo la visione di un film così poco cinematografico -perché esclude la realtà così molteplice e cangiante come davvero la viviamo – potremmo ritrovare in quell’aridità, tutti gli schemi che ci sono nella nostra vita e le prese di posizione in cui nascondiamo, come dietro una maschera, tutte le volte che non vogliamo metterci in discussione per andare verso l’altro. Questo film diventa una riflessione estrema e piuttosto fastidiosa di com’è la vita senza l’ascolto empatico, senza la voglia di comunicare con le vite degli altri, possibile solo uscendo dalla nostra zona di comfort e soprattutto senza rinunciare di imporre la schematica verità del nostro Ego.