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Empatia e coazione a ripetere

DI DANIELA GIRONI E ANDREA BONI

Il processo di empatizzazione, quando non è vissuto in modo consapevole (consapevolezza emotiva), può essere pericoloso e coinvolgente in un senso distruttivo. É il caso di tutti quei fenomeni che portano a ripetere un atto, a imitarlo, lasciandosi coinvolgere emotivamente dal sentire empatico. Per i puristi delle definizioni, occorre precisare che se tale è il caso, non dovrebbe definirsi “ empatia". Si veda in tal senso la definizione di Edith Stein, nel suo "Il Problema dell’Empatia", in cui viene discussa la definizione di Empatia, che non si confonde con fenomeni di sim-patia o di immedesimazione. Allo stesso tempo, è anche vero che quando non sussiste un discernimento, una consapevolezza emozionale, i due fenomeni possono sovrapporsi, o anche alimentarsi. Si consideri ad esempio il caso delicato del suicidio. Recentemente si è avuta la notizia drammatica del suicidio del cantante leader del gruppo Rock noto come Linkin Park, seguito da milioni di persone in tutto il mondo. Con il suo gruppo ha condiviso la sua sofferenza interiore, derivante da traumi non elaborati del passato. La sua voce era potente, penetrante, ed il suo modo di cantare era coinvolgente emotivamente, ovvero sapeva trasmettere emozioni profonde. Alla notizia del suo suicidio diversi fan sono entrati in un processo empatico in cui hanno sentito la sua sofferenza, e diversi purtroppo hanno scelto e stanno scegliendo di "ripetere" il gesto, evidentemente spinti da mali interiori. Il male del cantante leader è risuonato ancora più forte dentro, provocando una risonanza emotiva distruttiva.

Carl Rogers definisce l’empatia come la capacità di “mettersi nei panni” dell’altro; tuttavia questa capacità ha necessità di essere esplorata e compresa da un punto di vista alto che tenga conto sia degli studi su basi neurali, sia di conoscenze di ordine ontologico ed escatologico sulla quale si basa lo studio delle relazioni del nostro corso di counseling.

Le neuroscienze prendono in esame due tipi di empatia: emozionale e utilitaristica, che si rifanno, il primo all'etica kantiana e il secondo agli utilitaristi. Questi concetti sono ben spiegati nel libro "Dopo la virtù. Saggio di teoria morale”, Di Alasdair MacIntyre.

Se si uniscono i temi lì introdotti con gli scritti di Rizzolatti, in particolare nel suo “So quel che fai”, emerge con chiarezza che a tutt'oggi vengono presi in considerazione e perciò studiati e approfonditi dalle neuroscienze appunto due tipi di empatia: emozionale ed utilitaristico e nessuno dei due prende in esame il Sé, come centralità dell’esperienza. In tal senso, si noti che esiste un articolo dello psicologo Paul Bloom, che ha scritto anche un libro dal titolo: "Against Empathy".

Di seguito in sintesi il contenuto dell'articolo:

"Paul Bloom , psicologo e professore a Yale, sostiene che l'empatia sia qualcosa di dannoso. Ci è stato insegnato che mettersi nei panni degli altri sviluppa la compassione ma secondo il Prof. Bloom l’empatia ci rende ciechi rispetto alle conseguenze a lungo termine delle nostre azioni. In questa intervista animata del The Atlantic, Bloom argomenta la sua tesi secondo la quale dovremmo poter fare a meno dell’empatia."

Per approfondire, si può leggere anche Michael Tomasello con il suo libro "Storia naturale della morale umana".

Se le neuroscienze prendono in esame due tipi di empatia, emozionale e utilitaristica, escludendo che possano coesistere, ci chiediamo, l’atto empatico può essere evolutivo? E cosa si intende per atto empatico evolutivo? E ancora, l’empatia è un dilemma etico?

Se lo studio dell’empatia si basa sulla sola indagine dell’io, si può definire l’indagine conclusa con l’esame dei due tipi di empatia sopracitati.

L’empatia emozionale che si manifesta in assenza di capacità di auto-osservazione e auto-analisi, può facilmente condurre a comportamenti imitativi come quelli menzionati; la potente energia sprigionata da una emozione collegata all’io è dirompente e non cosciente.

L’empatia utilitaristica tenendo invece conto di costi-benefici, ha una qualche capacità di auto-ossevazione e di auto-analisi ma, essendo sempre collegata all’io, origina un pensiero moralistico che porta a una manifestazione empatica nei confronti di soggetti o situazioni che manifestano un qualche tipo di utilità.

Se invece lo studio dell’empatia si basa sull’indagine del ‘Sé’, quell’indagine ha appena avuto inizio, e si avvarrà di quella componente di cui la psicologia non tiene conto, ovvero la parte spirituale dell’Essere, dei suoi costituenti sottili, dell’aderenza alle leggi universali cosmiche (dharma).

In questo caso si può davvero convogliare l’energia emozionale che scaturisce dal combinato guna-samskara, in una offerta empatica evolutiva che tiene in considerazione sia l’emozionalità sia l’utilità, in una visione che scaturisce in una decisionalità evolutiva e non imitativa.

La decisionalità evolutiva si mostra attraverso una capacità alta di discernimento che sgorga da una fede salda e potente nel dhrama, che offre, a chi la possiede, la sicurezza di agire in armonia con le leggi che lo sostengono in quanto dall’Essere sostenute. Si sottolinea il termine Essere, in quanto chi riesce ad agire nel dharma è in stretto collegamento con il Sé a discapito dell’io.

In questo modo l’empatia non potrà mai causare danno alcuno in quanto non solo basata e motivata da un’etica esteriorizzata stabile e condivisibile ma soprattutto ottenuta dall’assenza di separazione, diretta conseguenza dell’abbattimento di quel muro che divide l’interno dall’esterno e che porta il nome di io.

Da qui l’importanza di sapere osservarsi, di vivere l’atto empatico in senso costruttivo, soprattutto nell’ambito della relazione di aiuto, al fine di essere davvero strumento di condivisione, ascolto e stimolo alla riflessione interiore.