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Superare la “sudditanza”

DI ANTONELLA CANTON

Essere di “sudditanza” alla figura maschile vigeva da regola sotto il mio tetto.

Uomo e donna lavoravano di pari merito (e qui ci siamo, uguaglianza=pari diritto?), ma esistevano delle sottili differenze(!), almeno per mia madre che era il capofamiglia indiscusso.

Ad ogni pranzo la donna preparava, mentre l’uomo se ne stava comodamente seduto, servito e riverito, e così valeva poi per le varie sistemazioni del dopo pasto.

Il sabato e la domenica i lavori domestici spettavano alle donne, mentre i figli maschi dormivano fino alle undici. Certamente non potevano essere svegliati, poiché oltre i loro imprechi ci pensava mia madre a fare il resto. Così andava anche il pomeriggio e nessuno ti diceva nemmeno grazie, bello, pulito che ne so qualche cosa che desse un senso a quel servizio. Per non parlare poi di quelle uscite della serie: la casa rimarrà ai tuoi fratelli, loro sono i maschi, non chiedermi i soldi per la domenica perché hai un ragazzo e deve pagare lui, non importa se anche disoccupato!

Parliamo di appena trent’anni fa, mica dell’età del bronzo... si provava a dire qualcosa e la risposta maggiormente in voga era: o questa minestra o salti dalla finestra!

L’aspetto della “casa” non era per me importante, invece erano altri scenari che prendevano forma nella mia mente: mia mamma parlava e così avveniva in me una trasformazione che diventava un pensiero disecologico: per essere accettata da un uomo tanto “prepotente” bisognava essere molto umili o forse scemi. Come il titolo di Marshall B.Rosenberg, le parole sono finestre oppure muri, costruivo trincee e ben presto saltai dalla finestra uscendo di casa.

Pian piano facevo spazio all’idea di una mia famiglia, alla quale offrire il mio amore, le mie cure, i miei talenti, le mie attenzioni, desiderando controbilanciare quanto avvenuto in quella d’origine. La questione era mal posta: dove va una con questa idea stigmatizzata di riverenza al mondo maschile? Si caccia nella pece.

Così ho fatto, l’ho scelto io, anche se non si può dire sostanzialmente di scegliere quando l’altro/a inganna, nasconde e non lascia libero l’altro/a di scegliere; si fa presto a dire “libero”, perché a quel punto nemmeno tu sei libero, l’adharma non si farà attendere a lungo.

La presente riflessione non vuole essere un lamento , una lacrima di coccodrillo, bensì un incoraggiamento per me al lasciar andare, come la barchetta di carta che lasci nel fiume e la corrente la trascina o come il piccione viaggiatore, che una volta consegnato il messaggio torna alla propria colombaia, in questo caso alla mia integrità.

Visto che non so inserire il pilota “automatico” come quando si guida in macchina e non si è consapevoli del percorso fatto, per fare i miei passaggi devo camminare sui ciottoli bagnati nel fiume in piena. Le emozioni in questo corpo incarnato influenzano la mia visione del mondo in senso figurato e proprio.

Purtroppo se la nostra visione s’incatena a ciò che sembra minacciarci, rischiamo di rimanerne paralizzati, sospesi in un limbo, anche semplicemente attraverso il non verbale che spesso urla intrepido. Ebbene fino a qui ci siamo, il problema rimane exmovere, o emovere dall’animo quel movimento in risposta agli stimoli esterni o interni a noi per tirarsi fuori dal pozzo (quello della rana della famosa metafora...). La Bhakti è la strada per andare verso i “cieli aperti” ma è anche un decidere di vivere con consapevolezza le nostre emozioni, altrimenti rischiamo di ritrovarcele incollate come Apollo a Dafne che se ne innamorò, ma lei pur di sfuggirgli chiese alla madre Gea (terra) di trasformarla in un alloro e non ancora pago, lui con i suoi rami ,si fece la corona e così lo si vede nell’iconografia classica! Vita dopo vita a girare su noi stessi, anche no…

Se abbiamo una margherita non è che la possiamo trasformare in una colorata, carnosa, velluta e profumata rosa, ma riconoscendo che la margherita non è un’erbaccia che rovina il nostro prato ma lo colora attirando a sé numerose api e farfalle, abbiamo maggiori probabilità di costruire relazioni sociali appaganti e arricchenti che creino uno spazio di libertà nelle nostre vite, togliendoci quel pugno nello stomaco, quel cerchio alla testa, per sentire invece il nostro respiro, capire i nostri bisogni e comprendere cosa realmente ci interessa, qui e ora. Questa è una delle sfide prima di tutto per noi e poi per il futuro counselor.