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articoli 2023

Ange Fey, professione accompagnatore alla morte: "Il mio mestiere è essere lì"

Si chiama Ange Fey, è nato nel 1962 a Parigi, e nel nome, Angelo in francese, c’era già il suo destino, però al contrario. Lui non è l’angelo della morte degli ebrei e dei musulmani, anche se svolge una professione senza eguali in Italia: accompagnatore alla morte. Se gli chiedi a quanti agonizzanti è stato vicino, un lampo di smarrimento gli attraversa gli occhi azzurri: «Non lo so, non lo so». Nel 2022 sono stati uno al mese, meno del solito, e il 2023 è già fitto di conferenze che lo impegneranno parecchio (Savona, L’Aquila, Alessandria, Cesena, Treviso, Sperlonga), tutte sul tema «Comprendere la morte, accompagnare la vita». Ma c’erano anni in cui ne assisteva il doppio, per cui si suppone che dal 1987 abbia raccolto l’ultimo respiro di almeno mezzo migliaio di persone. Fey abita ad Andrate (Torino). Nel 1997 ha fondato ad Aosta una onlus, Il bruco e la farfalla, per stare accanto alle persone in fin di vita. «Preparo medici, psicologi, ostetriche, infermieri, ma anche la signora Maria». Quando vigeva l’obbligo d’indicare la professione sulla carta d’identità, era in imbarazzo: «Accompagnatore ricordava una escort. Ho preferito formatore. Uno psichiatra argentino mi ha definito carontologo. Come il mitologico Caronte, traghetto all’altra riva».

Perché scelse questo mestiere?
«Il primo libro che lessi per intero, a 17 anni, era Mourir n’est pas mourir di Isola Pisani. Avrei dovuto capire allora che c’era una qualche malattia dentro di me. Sentivo parlare del bruco sgraziato che si trasforma in farfalla meravigliosa, ma nessuno mi spiegava come finisce la farfalla. È meno romantico, no? Così cominciai a studiare le capacità di cambiamento dell’essere umano, la psicologia applicata, le tecniche alfageniche di rilassamento, la sofrologia».

Come divenne accompagnatore?
«Mi chiamavano in ospedale per i parenti in fin di vita. Un infermiere di malattie infettive mi disse: “Un ragazzo sta morendo. È solo. Ha chiesto di avere accanto qualcuno. Te la senti? Ha 28 anni”. Io ne avevo 25, ero sconvolto. Allora non si parlava di Aids. Mi trovai in mezzo a un’ecatombe. Una paziente che avrà avuto l’età di Asterix mi guardò sorridendo: “Ho un morbo che non va di moda”. Per gli oncologici c’erano varie associazioni, per lei nessuna. Come mai ci si prende cura di chi nasce ma non di chi muore? Eppure la morte non è una malattia».

In pratica che cosa fa?
«Non c’è tecnica. Porto me stesso. Mi hanno definito “esserelista”, perché il mio lavoro è “essere lì”. Gli infermieri in ospedale corrono, corrono. Al mattino mi chiedono: “Ma lei che fa?”. La sera mi dicono: “Ah, lei dà la mano”. È come mettere l’indice sulla culla di un neonato: lo afferra subito. Una persona in coma ti prende la mano e la tiene stretta».

Chi la chiama al capezzale?
«Le famiglie. Spesso gli stessi malati terminali. Vado più nelle case, che negli ospedali. Non so mai che cosa succederà. Il primo incontro dura tre ore: devo capire se servo. In media rimango 15 giorni. Ma a una donna affetta da mieloma, alla quale avevano dato sei mesi di vita, sono stato accanto per quasi 7 anni».

Applica un protocollo?
«Non c’è regola. Me ne occupo e basta, non so come. Arrivo in una casa e ignoro se potrò essere utile. Non sono un infermiere, non sono un medico. Semplicemente sono “pronto a”. Riattivo le risorse intorno alle persone agonizzanti. I parenti non sanno neppure che esiste la legge sulle Dat, dichiarazioni anticipate di trattamento. Chiedo: se sopraggiunge una crisi respiratoria, che facciamo? Rianimiamo o no? Alimentiamo o no? Immagini sua madre che sta morendo. Non parla e non ha lasciato nulla di scritto. Lei vuole nutrirla, i suoi fratelli no. A quel punto si sfalda la famiglia».

Come fa ad avere risposte per tutto?
«Non le ho. Le cerco. Alle elementari ero sempre soprappensiero. La maestra mi diceva: “Ange, se vuoi viaggiare nel tempo, devi viaggiare nello spazio”. È ciò che ho fatto, andando a vedere negli altri Paesi com’è il testamento biologico, che non va confuso con le Dat. Esempio: se hai una polizza sulla vita, l’assicurazione paga in caso di rifiuto delle cure?».

È stipendiato per il suo lavoro?
«I corsi sono a pagamento. Ai privati applico la tariffa delle ostetriche. Faccio il loro stesso lavoro, però alla rovescia. Solo che il mio non so quando finirà».

Non teme che qualcuno la scambi per un accaparratore di eredità?
«Ci sto molto attento. Ho un pessimo rapporto con il denaro. Non sono mai stato nominato in un testamento. Quando a un funerale hanno voluto organizzare una raccolta di fondi per la onlus, ho devoluto il ricavato ai monaci tibetani».

Continua a leggere l'articolo sul Corriere della Sera

Chi ha tradito? Chi è stato tradito? Cosa è stato tradito?

Il tema del tradimento è spinoso e riguarda un po’ tutti, perché ha svariate sfumature che abbracciano molti ambiti della vita umana. Di primo acchito non mi sembrava di essere all’altezza di affrontare un tale argomento all’interno dei webinar del percorso di formazione in Counseling del Centro Studi Bhaktivedanta poi, riflettendoci, ho osservato che la vita mi ha permesso di maturare una discreta esperienza in materia, visto che personalmente ho vissuto un tradimento, l’ho attraversato, versandoci anche molte lacrime. Vero è che nella vita nulla arriva per danneggiarci, ma ci offre l’opportunità di apportare cambiamenti, per avanzare nella crescita umana e spirituale.

Cosa significa la parola tradimento? Il dizionario Treccani offre questa spiegazione:

“L’atto e il fatto di venire meno a un dovere o a un impegno morale o giuridico di fedeltà e di lealtà: commettere un t., macchiarsi di un t. infamante; t. di un’idea, di una causa, dei compagni di lotta, di un amico; con particolare riferimento al dovere o all’impegno di essere fedele al coniuge o alla persona cui si è uniti da un rapporto d’amore e d’affetto: il loro matrimonio è fallito, pare per i continui t. del marito. In diritto, tradimento, reato di vario tipo (aiuto al nemico, lotta armata contro il proprio stato, intelligenza con il nemico, ecc.) previsto dal codice penale militare: condannare alla fucilazione per t.; alto t, nel diritto costituzionale italiano, delitto proprio del presidente della Repubblica (unitamente all’attentato alla Costituzione), per il quale egli può essere posto in stato di accusa dal Parlamento riunito in seduta comune, a maggioranza assoluta dei suoi membri. 2. Azione delittuosa o dannosa compiuta, mascherando le proprie intenzioni, contro persone o istituti che hanno fondato motivo di fidarsi. È usato soprattutto nella locuz. avv. a tradimento: la città fu presa a t.; lo uccisero a t.; gli si avvicinò furtivamente e lo colpì a t., alle spalle; nell’uso fam.: mangiare il pane a t., vivere a spese d’altri, sulle spalle altrui, senza lavorare; fare una domanda a t., nel momento o su un argomento che l’altro non si aspettava.”

Possiamo dedurre da quanto specifica il dizionario, che il tradimento ha molte accezioni e lo possiamo configurare nelle relazioni tra coniugi, verso la patria, un’amicizia, un proprio benefattore, un parente, in un atto manipolatorio, ecc.

Chi mi conosce, sa che amo le storie, da quelle letterarie a quelle che ascolto con emozione dai miei clienti, ed è proprio attraverso le narrazioni che possiamo sviluppare nuove consapevolezze e nuove esperienze.

In letteratura troviamo un’infinità di racconti che parlano di tradimento, per fare qualche esempio famoso: nella Commedia di Dante troviamo la vicenda di Paolo e Francesca, altro noto tradimento quello di Bruto e Cassio verso Cesare, Giuda che per trenta denari fa arrestare Gesù, e poi ci potremo mettere le storie di tutti noi dove, chi più o chi meno, possiamo aver subito o perpetrato qualche tradimento.

Tuttavia la prima cosa da chiedersi è: chi è che tradisce? Chi si sente tradito? Cosa è stato tradito?

Una volta che realizziamo queste risposte, che poi si riducono a una, per forza di cose abbiamo iniziato il primo passo verso il processo che ci porta al perdono.

Vero è che per realizzare le risposte a quelle domande è necessario mettersi sinceramente in cammino con se stessi, perché solo se ci prendiamo la responsabilità della nostra vita e di ogni nostra azione, possiamo trasformare ciò che ci fa soffrire in un’esperienza evolutiva. Altrimenti, restiamo come “Paolo e Francesca” nel nostro personale girone infernale.

La scienza dello Yoga in tal senso ci offre una risposta molto chiara: chi tradisce, chi si sente tradito e chi è stato tradito, non amato, non visto, non considerato è il nostro ego, l’io storico e condizionato, ahamkara, che teme di perdere, fuor di ogni ragione il suo controllo, la sua supremazia.

È anche vero che noi non siamo il nostro ego, noi siamo altro, siamo sé, atman, spirito, e le qualità intrinseche del sé, dell’anima, sono sat, cit e ananda: eternità, coscienza e beatitudine. Se ogni persona fosse centrata e stabile nel sé saprebbe vedere il tradimento con il giusto distacco, mettendo subito in atto una serie di osservazioni e azioni che agevolano a gestire il vortice della rabbia e di una sofferenza indicibile.

Il Maestro Marco Ferrini nel suo testo “Tradimento Rancore e Perdono” scrive: “Sentimenti di invidia, gelosia, rancore e risentimento non sono mai provocati dagli altri, dagli eventi e dalle circostanze, ma dalla nostra risposta emotiva. Solo noi abbiamo il potere su di essi, e possiamo controllarli se ci convinciamo fermamente che risentimento, rancore e auto-commiserazione non conducono alla felicità e al successo, ma alla sconfitta e all’infelicità.”

Il Maestro Ferrini ci fa capire che noi abbiamo il potere di cambiare la nostra sorte fin da subito, gestendo in modo evoluto le nostre risposte emotive.

Se ci fosse questa consapevolezza, molte storie di tradimento sarebbero state diverse, perché la rabbia non avrebbe preso il sopravvento e non saremmo stati testimoni di orribili vendette che hanno fatto storia dall’antichità ai giorni nostri.

È naturale sentirsi arrabbiati quando si vive un tradimento, la rabbia si manifesta perché qualcosa si è rotto, rispetto ad un patto che si era sancito; la fiducia è venuta meno e questo ostacola nel raggiungimento di uno scopo e lo scopo ultimo è sempre la felicità.

Cosa fa sì che la rabbia porti immensi guai?

L’attaccamento affettivo e l’incapacità di gestire l’emozione, le quali innescano dinamiche che portano lontano da noi stessi e sviluppano difese, prima fra tutte l’esternalizzare, ossia riversare sempre la responsabilità sull’altro. Questo non significa che se l’altro ha commesso delle azioni deplorevoli dovremo giustificarlo. Sarà utile comprendere le motivazioni, avere dati oggettivi su cui confrontarsi, ed è importante che entrambe le parti si assumano le rispettive responsabilità, il che implica mettersi in gioco e prendere in considerazione che anche noi stessi potremmo avere in qualche forma contribuito a quel tradimento.

Quindi per arrivare al perdono è necessario guardarsi dentro, assumersi le proprie responsabilità e lavorare su di sé.

Il perdono come dice la parola stessa è la perfezione del dono, che si offre sia agli altri che a se stessi e permette di liberarsi dalla sofferenza, da relazioni dis-ecologiche che corrodono lentamente e in modo letale, il tradimento annienta e rende prigionieri.

Basti pensare alla storia di Medea e Giasone. Per vendetta rispetto al tradimento subito, Medea ha perpetrato un massacro, perché Giasone doveva soffrire più di quanto stava soffrendo lei. Eppure lei è stata sua complice in inganni che dovevano punire altri ingannatori. Una storia che racconta di tradimenti sotto varie sfumature, tuttavia nessuno si assume la responsabilità del male che ha indotto, c’è sempre una giustificazione.

Leggendo la storia di Medea ho osservato che in preda alla rabbia anche io sono stata un po’ come lei, che accecata dal dolore ha urlato tutto ciò che aveva dentro sull’altro, ma a cosa è servito? A niente, perché non ne esce vincitore nessuno, anzi chi è in preda alla rabbia con il desiderio di rivalsa, si ritrova poi svuotato, senza energia, in uno stato di angoscia che sfocia in azioni deplorevoli.

Dante nella Commedia, per far riflettere i suoi lettori, offre la storia di due donne che mette in parallelo nel canto V dell’Inferno e del Purgatorio. Le mette si può dire sullo stesso piano per portare l’attento lettore a osservare una differenza davvero peculiare. Francesca da Rimini la troviamo nel V canto dell’Inferno nel girone dei lussuriosi, a farsi travolgere e vorticare in un vento impetuoso, perché galeotto fu il libro e la storia che lesse, che la portò a tradire il marito. In quell’atteggiamento di giustificazione non si assunse mai la responsabilità del suo tradimento.

Diversamente nel V canto del Purgatorio, nella sua ultima terzina, Dante fa parlare Pia De Tolomei, perita di morte violenta per mano del marito che la gettò da una torre perché desiderava essere libero per vivere con la sua amante; in quelle poche e magistrali parole Pia racconta a Dante la sua storia sotto una luce diversa, la luce del perdono, che porta oltre gli accadimenti e si sofferma solo a trattenere il bene. Lei è consapevole di come è stata uccisa, vero è che ha saputo andare oltre al gesto subito, soffermandosi solo sul bello che quella relazione ha rappresentato: il ricordo del giorno del suo matrimonio, quando il marito le mette l’anello al dito.

In purgatorio le anime fanno un cammino di consapevolezza e purificazione, la misericordia di Dio apre le porte di quel luogo a tutti coloro che, anche all’ultimo secondo della loro esistenza, palesano nel cuore il pentimento per le azioni commesse. Nel purgatorio non ci sono grida e stridor di denti, le anime avanzano nel cammino cantando, con lietezza e compassione, verso l’empireo ciel.

Per cui se Dio è così misericordioso, lo possiamo essere anche noi, mettendoci con umiltà in cammino verso il perdono, chiudendo i cerchi, liberando noi stessi da catene relazionali che non hanno più senso di esistere.

L’orgoglio è una brutta bestia, e siamo qua, in questa vita, per superare i nostri umani limiti, per avere un’ulteriore possibilità di riscatto. Personalmente devo ringraziare la domanda che il counselor che mi accompagnò in quel triste periodo della mia vita mi offrì da stimolo, mentre affondavo in una palude di lamenti e vittimismo:

Quanto vuoi continuare a sbattere come una mosca addosso al vetro, quando potresti volare libera perché la finestra lì vicino è aperta?”.

Quella domanda fu uno schiaffo benevolo, che mi svegliò dall’intorpedimento che vivevo e mi permise di riflettere molto sulle pretese che avanzavo verso risposte che non era scontato arrivassero e mi agevolò a osservare me stessa da ulteriori prospettive, dove vidi le mie responsabilità, me ne presi carico per poter finalmente lasciare andare.

Sono riuscita poi a trovare la finestra aperta e ora desidero ricordare solo il bene che c’è stato, perché ce n’è stato molto, e ho fiducia che possa essere così anche per voi.

 

La morte: una opportunità da realizzare solo vivendo

“Le persone muoiono come hanno vissuto: se hanno vissuto lamentandosi, si lamenteranno ancora di più nel momento della morte, se hanno vissuto nella tristezza, lo saranno ancora di più nel processo del morire, a meno che, durante la vita, non intervenga un cambio di stile, che è sempre possibile.”

Marco Ferrini 

La frase del maestro Ferrini è quanto mai significativa e pregna di verità. La morte si dipana come la scena finale nel palcoscenico della nostra esistenza e il finale non sarà “vissero tutti felici e contenti” ma si svilupperà a seconda di come abbiamo vissuto la vita. Su questo aspetto abbiamo tutti da riflettere molto, possiamo fermarci e prenderci del tempo con onestà, per osservare come ci siamo posti fino ad ora nel vivere. È anche vero che, se la prima parte della frase ci mette di fronte alle nostre responsabilità volenti o nolenti, nella seconda parte della citazione del maestro Ferrini è invece racchiusa molta speranza che si manifesta nel cambiamento, nell’opportunità di cambiare noi stessi e le modalità con cui ci poniamo davanti agli eventi. Quindi, la sorte è sempre nelle nostre mani e sebbene sarebbe opportuno cambiare per tempo, abbiamo fino all’ultimo respiro la possibilità di svoltare. 

Al solo pensiero ci si sente già più leggeri!

Allo stesso tempo ciò che sembra opportuno e fattibile non è così scontato e il più delle volte ci si ritrova a confrontarsi con la morte nella sofferenza e nel dolore.

La morte, purtroppo, è ancora un tabù da sfatare.

Per questo la figura professionale dell’Assistente Spirituale in questo contesto storico svolge una missione molto importante: accompagna le persone nell’ultimo tratto dell’esistenza e i loro famigliari nell’attraversamento del dolore della perdita.

Vero è che per la formazione esistenziale filosofica che struttura interiormente all’accompagnamento nel fine vita, si può affermare che l’assistente spirituale Bhaktivedanta è anche un educatore che agevola le persone a comprendere cos’è la morte, il processo del morire e il senso profondo che è insito nell’ultimo tratto dell’esistenza.

Sono fermamente convinta che ci sarà sempre più bisogno di figure professionali che accompagnino con amorevole umanità a trovare il senso più ampio di ciò che accade: in un percorso di malattia, in una dipartita improvvisa, in una lunga agonia, nell’elaborazione di una perdita. Il senso della vita e le opportunità che in sé nasconde la morte non si possono comprendere quando siamo di “lá”; dobbiamo realizzarle in questa vita se vogliamo morire bene.

La paura della morte è così radicata negli individui tanto da negare il fatto che può essere vicina più di quanto si immagini. Si cerca così di spostare questo pensiero sempre un pochino più in là, come se ci fosse un tempo infinito a disposizione, ma purtroppo non corrisponde alla realtà, anzi, ogni giorno che passa ci avvicina sempre più a quel fatidico momento.

Allora cosa fare per cambiare paradigma e osservare tutto questo come un’opportunità?

Per comprendere queste possibilità celate, il percorso di studi per assistenti spirituali del CSB offre molti strumenti, affinché le persone possano imparare ad essere presenti con umanità e amore sia nella vita sia nella morte. È nella comprensione di ciò che ci è oscuro che si dipanano le paure e la millenaria scienza dello Yoga offre prospettive che donano serenità e speranza rispetto al tema della morte, considerata come un momento di passaggio che traghetta verso una dimensione altra e non come la fine di tutto.
Si è così radicati sul fatto che la realtà sia ciò che si vede con i propri occhi che sfugge, invece, quanto altro c’è da esplorare.
Il maestro Marco Ferrini ricorda, citando i testi dello Yoga, nelle sue apprezzate visualizzazioni meditative che: “Noi non siamo il corpo, noi viaggiamo in un corpo…” e per forza di cose questo corpo invecchia, si ammala e muore. Vero è che la nostra essenza, la nostra anima, vive da sempre e per sempre e continua il suo viaggio in un’altra dimensione.

In questa prospettiva, nel percorso per assistenti spirituali del Centro Studi Bhaktivedanta si possano acquisire conoscenze che sviluppano ulteriori e più evolute consapevolezze, che sono aperte alla speranza e alla progettualità anche nel processo del morire.

Tra le pratiche che vengono usate nell’accompagnamento spirituale, le narrazioni hanno un posto di rilievo. La letteratura vedica si avvale di un ampio compendio di storie che hanno un altissimo valore di conoscenza ed esperienza. In particolare il Bhagavata Purana, detto anche Shriman Bhagavatam, è un’opera narrativa unica nel suo genere, costituita da 18.000 versi. Ci si può chiedere: come un’opera così antica e lontanissima da noi, possa offrire prospettive all’uomo e alla donna moderni? Il maestro Ferrini risponde in modo davvero semplice a questo quesito, partendo dal fatto che si tratta di un’opera di filosofia perenne che non teme il passare degli anni. Il focus che la rende sempre attuale è che gli uomini e le donne, da che mondo e mondo, hanno sempre tutti gli stessi problemi: sebbene queste narrazioni siano state scritte migliaia di anni or sono, parlano di crisi, conflitti relazionali, atti meschini per raggiungere il potere, guerre fratricide e soprattutto di morte. Infatti, lo Shriman Bhagavatam è un insieme di storie sulla morte e su come prepararsi a tale evento narrate a Re Parikshit che, come diremmo ai giorni nostri, ha ricevuto una diagnosi infausta e sa che deve morire entro 7 giorni.

Se ti mettessi nei suoi panni cosa faresti?
A cosa daresti priorità?
In che misura entreresti nel panico e nella disperazione?

Re Parikshit, persona saggia e illuminata, decide di lasciare tutto, demanda ogni potere, sveste gli abiti da sovrano e si siede ai piedi di Shukadeva Gosvami chiedendogli di aiutarlo a prepararsi a questo evento. Questo grande Maestro allora gli narra storie che toccano e smuovono il profondo dell’animo.
Storie che hanno uno straordinario principio curativo attraverso l’ascolto.

Le narrazioni diventano dei catalizzatori attraverso l’ascolto, è ascoltando che Re Parikshit si libera dalle sue paure e dai suoi condizionamenti. Queste storie ricche di simboli e di contenuti archetipi lavorano e purificano la mente profonda, spargendo semi importanti nella memoria psichica sottile che se ne dipartirà con l’anima nel momento della morte, semi che germoglieranno e daranno frutti nel momento più opportuno, perché nulla è mai perduto.

Storie, narrazioni, racconti antichi che aiutano a prepararsi con umana dignità alla morte, fiore all’occhiello di questa scuola che vuole essere in prima linea nell’accompagnamento spirituale, perché come la levatrice porta alla luce una nuova vita, l’assistente spirituale illumina il traghettare dell’anima verso il continuo eterno dell’esistere.

Musicoterapia nel contesto socio-educativo per un dialogo inclusivo e trasformativo

TEMPO DI INCLUSIONE: Suono ,musica, frequenze sonore e stare insieme….

Fabio Pianigiani e Andrea Boni

"Ho lasciato la musica perché da essa ho avuto tutto quello che dovevo ricevere. Per servire Dio bisogna sacrificare ciò che si ha di più caro; e così ho sacrificato la mia musica. Sono arrivato allo stadio in cui ho raggiunto la Musica delle Sfere. Da allora ogni anima è divenuta per me una nota musicale e tutta la vita è diventata musica. Ora, invece degli strumenti sintonizzo le anime, invece delle note armonizzo gli esseri umani, mettendoli in armonia con se stessi e con gli altri ….Ho trovato in ogni parola un certo valore musicale, una melodia in ogni pensiero, armonia in ogni sentimento ed ho tentato di interpretare tutto ciò con parole chiare e semplici per coloro che erano abituati ad ascoltare la mia musica. Ho suonato la vina fino a quando il mio cuore si è trasformato nello strumento stesso; quindi ho offerto questo strumento al divino musicista, l'unico musicista esistente. Da allora sono divenuto il suo flauto e, quando vuole, egli suona la sua musica. La gente ha fiducia in me grazie a questa musica che in realtà non è dovuta a me ma al musicista che suona il suo strumento" 
Hazrat Inayat Khan

In Breve: In questo seminario incluso all’interno del percorso di formazione in Counseling del Centro Studi Bhaktivedanta Fabio Pianigiani, musicoterapeuta e compositore, affiancato da Andrea Boni, Counselor e coordinatore del Dipartimento di Counseling del Centro Studi Bhaktivedanta, ci accompagneranno nel mondo straordinario dell’arte dell’ascolto, attraverso l’uso della musica come “potente scuola dei sentimenti”. Imparare a saper ascoltare è una vera e propria arte, che può essere acquisita con l’esercizio costante; la musica si offre al servizio di questo esercizio, per imparare l’empatia e come metodo socio-educativo. Il seminario sarà caratterizzato da sessioni teoriche, condivisioni ed esercizi, per imparare a crescere ed evolvere nell’inclusione e nell’umanità. 

La musica è «una potente scuola dei sentimenti», e sebbene delle sue componenti esoteriche e scientifiche ne è rimasta solo una pallida ombra, costituisce ancora lo strumento efficacissimo di un’educazione emotiva e comportamentale a tutto campo; fornisce «un addestra- mento collettivo nella conoscenza delle passioni, una palestra dove sperimentare in presa diretta... le dinamiche dell’effusione emotiva per una loro trasformazione evolutiva. Volendo allora avvicinarci alla musica, la si deve osservare in primo luogo nell’interazione e nell’interconnessione con le scienze e la filosofia, di cui è parte tuttora integrante. Il suono è un fenomeno fisico in certo senso primordiale. Sta all’origine della percezione. Nel buio dell’universo che si va formando, il suono già esiste: è prima della luce. Il suono è la fonte di un costante stupore, di quella meraviglia che a sua volta è il motore di ogni conoscenza. Quindi, prima ancora che indagare il suono, è necessario alzare gli occhi al cielo silenzioso e meravigliarsi. L’uso indiscriminato delle risorse sonore, infatti, se da un lato impoverisce la componente estetica della musica, dall’altro rafforza la convinzione che l’uomo non possa vivere senza, al pari di aria e acqua. Così l’homo œconomicus di questa nostra crepuscolare era industriale è un uomo effettivamente “sonoro”, ma lo è in una sola dimensione, quella inebetita imposta dallo sfruttamento massiccio della musica. È un uomo sonoro poco predisposto alla manualità e all’impegno che la musica richiede e condizionato da una tecnologia troppo spesso strategicamente illusoria ed elusiva, fortemente condinzionante in un senso involutivo per la coscienza.  

“…Le vibrazioni dell'anima sono le più potenti ed arrivano più lontano, esse fluiscono come una corrente elettrica da un anima all'altra. Tutte le cose e tutti gli esseri nell'universo sono collegatil'uno con l'altro, visibilmente o invisibilmente, ed attraverso levibrazioni si stabilisce tra essi una comunicazione in tutti i piani dell'esistenza. Per esempio quando durante una riunione una persona tossisce, altri tossiscono, lo stesso vale anche per lo sbadiglio, il riso, l'eccitazione o la depressione. Ciò dimostra che le vibrazioni trasmettono le condizioni da una persona all'altra; il veggente perciò vede il passato, presente e futuro e percepisce lec ondizioni su tutti i piani dell'esistenza.
Le vibrazioni operano attraverso la corda della simpatia esistente tra l'essere umano ed il suo ambiente e rivelano le condizioni del passato, presente e futuro; ciò spiega perché l'ululare del cane predice la morte e il nitrito del cavallo il pericolo. Non solo ciò è chiaro negli animali, ma perfino le piante nei momenti penosi cominciano a morire, i fiori ad appassire,mentre in periodi di felicità essi crescono e prosperano. La causa per cui le piante e gli animali possono percepire le vibrazioni econoscere gli eventi futuri, mentre l'uomo li ignora, è che l'uomo si è accecato con l'egotismo. L'influenza delle vibrazioni rimane sulla sedia su cui ci si siede, nel letto ove si è dormito, nella casa dove si vive, negli abiti che si indossano, nel cibo che si mangia e perfino nella strada dove si cammina.Ogni emozione sorge dall'intensità delle vibrazioni  che, se sono attive in varie direzioni, generano diverse emozioni; la causa principale di ogni emozione è semplicemente l'attività. Ogni vibrazione, quando è attiva, solleva la coscienza verso la superficie più esterna e la bruma provocata da questa attività si raccoglie in nuvole che noi chiamiamo emozioni.” 
Hazrat Inayat Khan

I linguaggi sonori sono potenti strumenti espressivi e comunicativi della sfera emotiva, particolarmente efficaci nell’esprimere vissuti difficilmente comunicabili, come quelli che caratterizzano lo stress, la solitudine, la  malattia etc. Nonostante l’enorme sviluppo che la tecnologia della comunicazione ha avuto nel nostro tempo, accade spesso che persone in situazioni di difficoltà, si trovino a vivere un pesante senso di solitudine e di isolamento. La musica permette un’espressione diretta, immediata, spontanea, arcaica ed istintiva di noi stessi che non passa attraverso l’intelletto. Ognuno ha in sé delle risorse proprie e un potenziale autorigenerativo che va semplicemente stimolato. La musica /suono svolge questa funzione e ci consente di credere ed essere fiduciosi nelle capacità che tutti quanti noi possediamo. Lavorando sulle risorse individuali e utilizzando le parti positive, si ottengono dei cambiamenti stabili andando a sollecitare e trasformare le parti negative, oscure. Così, la musicoterapia, con le sue tecniche e materiali, favorisce la conoscenza di sé stessi e delle proprie potenzialità e rende possibile l’integrazione di tutte le risorse di cui disponiamo per poter vivere meglio. 

La musicoterapia quindi svolge la funzione non solo di trattamento di malattie ma anche di trasformazione, evoluzione e crescita dell’individuo, quindi è un potente mezzo nell’ambito del Counseling. La produzione artistica non avviene in completa solitudine, ma prevede una relazione tra due persone, l’operatore e l’assistito, e nell’ambito della quale, la propria creazione viene osservata e discussa, un po’ come accade ai bambini quando mostrano il proprio disegno ai genitori. I materiali e le tecniche che il cliente utilizza gli permettono di esprimere, plasmare e dare una identità precisa al problema che l’ha portato nell’incontro con il facilitatore (ovvero colui che facilita l’osservazione di sé e l’avviamento al cambiamento interiore); attraverso l’aiuto dell’operatore è possibile raggiungere una nuova visione di tale difficoltà, un’intuizione, un insight che lo avvicini alla risoluzione del conflitto interno. Il musicoterapeuta deve saper quindi accogliere, legittimare, amplificare i messaggi dell’altro con parole, suoni/musica e proposte. Nel fare ciò deve avere una sensibilità estetica capace di cogliere non la bellezza, il gradevole o il piacevole ma il significativo, il comunicativo. In questo contesto i canoni di bellezza non esistono, ciò che conta è la comprensione, l’accettazione e la contemplazione di ciò che il cliente intende comunicare con la propria visione. I prodotti artistici non devono mai subire “interpretazioni”, il significato è sempre personale, privato, egocentrato e và ricercato attraverso il colloquio, cosicché sia il cliente stesso ad individuare il giusto messaggio della propria creazione. 

“…L'armonia è la sorgente della manifestazione, la causa della sua esistenza e il tramite fra Dio e l'uomo. La pace che ogni anima si sforza di raggiungere, che è la vera natura di Dio e il traguardo finale dell'uomo, non è altro che la conseguenza dell'armonia; ciò dimostra che senza armonia tutte le realizzazioni della vita sono inutili. Ed il raggiungimento dell'armonia viene chiamato cielo ed è la sua mancanza che viene chiamata inferno. Solo colui che ne è in possesso è atto a capire la vita - e colui che è privo di armonia è stolto malgrado tutte le altre possibili conoscenze.”Hazrat Inayat Khan

Dall’Illuminismo in poi, sono stati privilegiati l’aspetto cognitivo, la mente, l’intelletto, la ragione, (aspetti caratteristici dell’emisfero sinistro) a discapito della creatività, della fantasia, dell’intuizione, delle percezioni sensoriali (aspetti caratteristici dell’emisfero destro). In questo modo le risorse tipiche dell’emisfero destro sono state quasi completamente dimenticate con un conseguente impoverimento della capacità a vivere “con tutto sé stessi” la propria esistenza. L’Arteterapia si pone come obiettivo la riappropriazione di tale patrimonio in quanto può essere un valido sostegno nelle situazioni di difficoltà che la vita ci pone. Attraverso un disegno, un colore si può contattare l’aggressività. Con la musica si può facilitare l’espressione dei sentimenti e con la danzaterapia il corpo è libero di esprimersi con il proprio linguaggio, al di là delle convenzioni. Attraverso il teatro si ha la possibilità di impersonare ruoli nuovi e mettersi nei panni degli altri. 

Sempre più l'approccio farmaceutico convenzionale con cui vengono trattate alcune tipologie di clienti, risulta essere sterile, un approccio che scinde l’unità corpo-mente dell’individuo, un approccio che non considera il lato psicologico/spirituale del soggetto. Crediamo che sia molto importante che il cliente, in casi in cui sia richiesto, possa essere affiancato non solo dal medico o da un professionista della psiche, ma anche da una figura che crei un collegamento tra l’ ambiente esterno e il soggetto, una figura che tenga conto delle sue sensazioni e dei suoi stati d'animo e che permetta al soggetto di esprimersi nel miglior modo possibile, che gli permetta di affrontare al meglio il disagio  derivante dal suo senso di separazione dal sé, consapevole o inconsapevole. 

Ogni musica viene prodotta per essere interpretata, capita e apprezzata: questo è il suo scopo ultimo. Ogni ascoltatore assume spontaneamente e naturalmente nei confronti della musica che gli piace un atteggiamento interpretativo: le attribuisce un senso anche senza rendersene conto. Quando si trova di fronte a musiche inconsuete assume lo stesso atteggiamento ma non ottiene risposte: la musica non si lascia interpretare. Bisogna saper conservare il proprio atteggiamento interpretativo, perché la comunicazione musicale ha sempre a che fare con i problemi profondi dell’affettività umana, i problemi del nostro vissuto, e il carattere affettivo di una musica è sempre a disposizione. Bisogna avere un moto di fiducia iniziale in quel piccolo germe comunicativo e nella propria capacità di coglierlo.

Se una musica ci commuove o ci piace è perché ha un “carattere affettivo” (ma potremmo anche chiamarlo “espressività”) che abbiamo capito e ci ha colpito perché corrisponde a qualche aspetto della nostra stessa affettività, e che interpretiamo come il senso che essa possiede, o il contenuto che noi le attribuiamo.

“…Se stiamo attenti alla musica della natura, scopriamo che ognicosa sulla terra contribuisce alla sua armonia. Gli alberiondeggiano gioiosamente i loro rami col ritmo del vento; il suonodel mare, il mormorio della brezza, il fischiare del vento tra lerocce, colline e montagne, lo sprazzo del fulmine e lo scoppio deltuono, l'armonia del sole e della luna, il movimento delle stelle edei pianeti, lo sbocciare dei fiori, lo sbiadire delle foglie,l'alternarsi regolare della mattina, sera, pomeriggio e notte, tuttorivela al veggente la musica della natura.”Hazrat Inayat Khan

 

Empatia
Ogni ascoltatore possiede strumenti di comprensione e una competenza interpretativa che ha acquisito per abitudine all’ascolto. La nostra cultura musicale è complessa e molteplice: anche chi non sia abituato ad ascoltare musica classica, jazz, pop, etc. ne ha comunque conoscenza indiretta attraverso altri tipi di musica che possono avere in comune con essa alcuni procedimenti strutturali. L'esposizione ad essa avviene in forme indirette, ma sicuramente avviene, e a volte avviene senza che l'ascoltatore ne sia consapevole. Più difficile, anche se non escluso, è che un ascoltatore occidentale abbia orecchio anche parzialmente addestrato ad ascolti di musiche lontane dal nostro universo. L'esposizione, anche se saltuaria e indiretta, può creare competenze, sia pure ridotte o marginali. 
Per interpretare un pezzo di musica non basta un atteggiamento neutro o astratto. Il carattere affettivo non si lascia cogliere se i suoi contenuti non vengono interiormente ricostruiti e fatti propri dall’ascoltatore. Questo sembra avere a che fare con l’empatia.

Ascolto creativo
Ascoltare musica non è un'attività passiva o neutra, bensì un esercizio impegnativo di partecipazione personale. La molla di questo impegno consiste nel provare piacere: l’ascolto musicale è auto gratificante. Lo scopo dell’ascolto è però lo scambio di esperienze. L’empatia musicale ha il ruolo di arricchire la nostra vita interiore facendoci partecipare alla vita interiore di altri esseri umani. L’esperienza dell’ascolto è però di per sé stimolante: se non si prova piacere a compierla significa che non si sta propriamente ascoltando. Quindi la fatica e l’impegno hanno un compenso di gratificazione automaticamente incluso nell’ascolto stesso. 
Da un lato si tratta di compiere uno sforzo di tipo introspettivo: chi ascolta deve saper riconoscere e scoprire entro se stesso i caratteri affettivi che la musica ascoltata sembra voler comunicare. In secondo luogo si tratta di compiere uno sforzo metalinguistico: quello di trovare immagini, metafore, gesti e colori, ma soprattutto parole che possano spiegare il carattere affettivo della musica ascoltata.

In un’epoca di overdose di immagini, dove l’apparenza e quindi il rendersi visibili annullano tutti gli altri sensi e privano sostanzialmente i più della capacità di sentire con le orecchie e con il resto del corpo, dove l’ambiente acustico è severamente inquinato e impedisce la selezione della fonte sonora e l’ascolto deliberato  e concentrato è bene ripensare però al fatto che è proprio la funzione dell’ascolto a costituire una delle acquisizioni umane più importanti per la comunicazione.

Grazie ad una complessa rete di controllo, l’orecchio si mette all’ascolto del mondo esterno al fine di comunicare con questo.

“Il mistero del suono è il misticismo; l'armonia della vita è lareligione. La conoscenza delle vibrazioni è la metafisica e l'analisidegli atomi è la scienza, e il loro armonioso raggrupparsi è l'arte.Il ritmo della forma è la poesia e il ritmo del suono è la musica.Ciò dimostra che la musica è l'arte delle arti e la scienza di tutte lescienze e che contiene dentro di sé la fonte di tutta la conoscenza.” Hazrat Inayat Khan

Verso una leadership del benessere

Il seminario di formazione in Counseling del Centro Studi Bhaktivedanta di Aprile e gli approfondimenti avvenuti durante i webinar hanno sviscerato il tema della leadership come gestione e sviluppo delle risorse interiori.

Il concetto di leadership assume fondamentale rilievo nell’ambito del percorso di formazione che stiamo affrontando, poiché è strettamente connesso al vivere una vita appagante e felice. Attiene al raggiungimento della realizzazione vera: il divenire la migliore versione di se stessi per avvicinarsi alla piena realizzazione del sé.

Si è così partiti dalla definizione di leadership autentica. Nella scia dei percorsi di crescita e realizzazione affrontati nei precedenti incontri, si è disegnato il contenuto della leadership di successo fondata sull’assunzione delle proprie responsabilità e sulla rigorosa coerenza con un modello valoriale assoluto.

Un leader autentico è colui che, consapevole del proprio sentire (consapevolezza emozionale), se ne assume pienamente la responsabilità (autogestione personale): dal livello dei desideri fino al livello del pensiero e azione. Quando non c’è coerenza tra consapevolezza emozionale e assunzione di responsabilità sorgono conflitti interiori che difficilmente possono consentire di condurre una vita serena poiché sfociano quasi sempre in difficoltà relazionali.

Ecco che sviluppare una leadership personale, quale gestione e sviluppo delle risorse interiori, è fondamentale per condurre una vita appagante con relazioni costruttive vere e con conseguente sviluppo di una leadership autorevole in tutti settori della società in cui ci si trova ad operare.

Un leader autentico, ossia un leader radicato nella realtà contestuale e che opera ispirato da una visione superiore, è colui la cui esistenza ed azione è diretta alla realizzazione della sua natura più profonda: il suo cammino è volto alla ricerca della realizzazione del sé, nella sua pura forma ontologica: la svarupa. Ecco che allora le sue caratteristiche saranno quelle dell’uomo illuminato che, con il suo esempio, segnerà la norma da seguire per tutto il mondo (BG: III, 21).

Il leader autentico avrà riportato alla luce nel loro splendore le 26 qualità del ricercatore spirituale, poiché, come più volte indicato da Marco Ferrini, la coltivazione delle stesse ci porta alla realizzazione della nostra vera natura, liberandoci dai condizionamenti e dalle false identificazioni. Non è possibile essere un vero leader, in qualsiasi contesto, se non si pone mano alla gestione delle proprie risorse.

Tutti siamo potenzialmente dei leader, infatti le caratteristiche del vero leader sono quelle della persona realizzata e tutti siamo chiamati a questa vocazione. Divenire leader di noi stessi vuol dire guidarci verso la verità più alta e verso il nostro svadharma. Essere leader di se stessi pertanto non è una opzione ma una necessità improrogabile.

È importante avvicinarsi alla propria svarupa, (B.G. II, 22-25), assimilata al concetto di corpo di gloria della tradizione cristiana, quale forma essenziale dell’essere, ontologicamente ad esso appartenente e che lo caratterizza e lo rende unico: la svarupa, che il maestro spirituale può intravedere nel discepolo e in base alla quale può individuare un nome spirituale da attribuirgli, è nascosta dagli strati condizionanti della materia ed è per questo che non è immediatamente percepibile. Ma essa “è” e non può “non essere”. L’obiettivo primario pertanto è quello di allentare e poi sciogliere il legame dipendente dal guna e dal karma per poterla fare emergere nel suo splendore autentico.

Il lavoro di liberazione può avvenire solo con il processo metacognitivo (che di seguito si illustrerà nel dettaglio) in quanto è un processo che trascende la mente condizionante, e consente il decentramento e il superamento della visione dell’ego storico, per centrarsi sul sé.

Un processo logico razionale infatti rimarrebbe vittima dei propri stessi condizionamenti, in quanto la mente essendo essa stessa di natura materiale è sottoposta al condizionamento di guna e karma.

Per conoscere se stessi, occorre in primo luogo sperimentare le nostre emozioni e prenderne consapevolezza: innanzitutto chiederci “come ci vediamo? Come ci vedono gli altri? E poi chi siamo?” queste domande ci aiutano ad entrare nell’osservazione del proprio comportamento.

Lo stile comportamentale di ciascuno è costituito da un comportamento base inconscio e da un comportamento detto “adattato”, perché dipendente dai contesti in cui ci troviamo ad operare.

Considerata la complessità delle componenti che originano il nostro agire non c’è da stupirsi che le relazioni diventino un banco di prova molto difficile e impegnativo nella vita. L’incontro di due persone avviene prima a livello inconscio. È dunque fondamentale prendere consapevolezza profonda dei nostri mondi sommersi: le risorse, i talenti da cui scaturiscono i nostri valori, i bisogni, le emozioni: da qui nascono le motivazioni che ci spingono al pensiero e poi all’azione ( il comportamento).

Il comportamento pertanto non è che il risultato finale di un processo che partendo dalla nostra svarupa, viene fortemente condizionato dalle tendenze (guna) ed esperienze (karma), che determinano la sfera dei bisogni, delle emozioni e delle motivazioni. La natura materiale della psiche è composta di logos (pensiero) e eros (componente affettivo emozionale), entrambe sono presenti ma in base alla loro preponderanza determinano le nostre caratteristiche, ecco perché è molto importante prendere consapevolezza del nostro funzionamento, sotto tutti gli aspetti, e comprendere come funziona in noi il processo che determina il nostro comportamento.

Il comportamento base inconscio è quello più difficile da modificare, ma è anche quello che se modificato comporta il cambiamento anche del comportamento adattato e determinerà una profonda trasformazione delle nostre relazioni.

La trasformazione di tale comportamento avviene a seguito di un processo a ritroso che parte dall’esterno, il comportamento manifesto e va a sondare il seme inconscio che lo ha generato, proprio come Patanjali perscrive nello Yogasutra (sadhana pada X).

Le domande:

“Cosa hai già fatto?”
“Cosa non hai fatto che vorresti fare?”
“Cosa hai già fatto e che vorresti smettere di fare?”
“Cosa non sai ancora di dover fare?”
mettono in moto la ricerca, spingono verso il cammino interiore che porterà all’apertura del processo meta cognitivo, che può essere portato a termine con le visualizzazioni su come si vorrebbe essere, su come si vorrebbero le cose.

Nel mentre che si pone mano al proprio carattere e si procede nel percorso della liberazione, risulta fondamentale comprendere tuttavia, le nostre caratteristiche comportamentali e sviluppare una profonda sensibilità, come counselor, nell’individuare quelle del prossimo, onde potere davvero entrare in profonda connessione con l’altro e costruire relazioni costruttive che non rimangano in balia di comportamenti condizionati e reattivi.

Sono così state analizzate gli stili comportamentali prevalenti, gli stili di leadership condizionati e come queste conoscenze possano divenire utili nell’ambito del colloquio di counseling.

Andrea Boni