La mia esperienza
MAGGIO 2016 - ELABORAZIONE E GESTIONE DELL'EVENTO MORTE
A riguardo dell’evento morte e della sua elaborazione, volevo rendervi partecipi dei miei progressi. Io ho perso il padre quando ero molto giovane e poiché ho cercato di non piangere e sfogarmi, trattenendo emozioni e lacrime, per farmi forte in famiglia, il risultato che ho ottenuto è stato un bel esaurimento. Avevo diciannove anni quando è successo il triste fatto e la tristezza e la rabbia me le sono portate addosso per molto tempo. Fino a poco tempo fa, il mio carattere era a dir poco insopportabile: sensi di colpa, rancore, procrastinazione e soprattutto la mancanza di responsabilità.
Per anni ho sempre dato la colpa a tutto e a tutti. La mia frustrazione l’attribuivo al lavoro, al marito, ai figli e a tutto il parentado. La mia insoddisfazione gridava sempre più forte, ma non sapevo da dove provenisse e quale ne fosse la causa. Se dovessi guardarmi indietro potrei avere solo molta compassione. Riguardo alla malattia e alla morte, non solo avevo paura ma terrore. Avendo avuto quella terribile esperienza, vivevo nell’angoscia di ammalarmi e di perdere i miei cari. Oltre a star male fisicamente quando entravo in ospedale, non riuscivo a vedere, nella sofferenza, nulla di umano. Sono sempre stata una cristiana cattolica praticante, ma non riuscivo a concepire che relazione avesse la morte con l’essere umano. Perché Dio era così vendicativo? Come poteva permettere la morte di un neonato? E la morte di un padre o una madre di famiglia, con bimbi piccoli, non era crudele? Nessuna risposta, se non che Dio avesse le sue buone ragioni per punire questo e quello. Ma dove si andava dopo la morte, non lo sapevo e non riuscivo a darmi risposta. Intuivo che le anime vagassero qua e là, ma in cerca di che? E questo errare era poi un premio o un altro castigo? Domande su domande che non avevano risposte. Pregavo forse più per paura che per devozione. Era come se seguissi quel Qualcuno, che non capivo, un po’ come la matematica a scuola. Sapevo che era importante studiarla, ma non comprendendola, avevo nei suoi confronti odio e amore, il famoso Dvandva! All’età di 47 anni ho deciso di non andare più in chiesa. Ormai non aveva significato quello che facevo. Era diventato un peso e non un piacere; a dire il vero mi recavo più per coerenza che per altro. Poiché costringevo i miei figli ad andarci, era d’obbligo che praticassi anch’io! Quando mi sono liberata di questa finzione, è come se in famiglia ci fossimo alleggeriti di una zavorra. Però, che tristezza! Mi mancava qualcosa, quell’unione con il divino. Sentivo che Dio mi attraeva e nello stesso tempo temevo anche le sue ripercussioni. Mi ero liberata, sì… ma non ero felice lo stesso. E la morte nel frattempo non l’avevo accettata. E la malattia e la vecchiaia? Se ci penso, non so che dire. Sta di fatto che non potevo sopportare chi soffriva e l’ospedale era un luogo per me impraticabile. Quando qualcuno si ammalava, aspettavo che tornasse a casa. E se questo non fosse stato possibile? Avrei avuto senza dubbio sensi di colpa. Poi per fortuna nel settembre 2013, ho conosciuto il CSB e subito dopo il gruppo del Counseling. Studi, lavori, esperienze, letture, corsi e seminari, mi hanno permesso di raggiungere la giusta strada. Siamo nel 2016 e dopo soli due anni, sono diventata un’altra. Certo di strada ne ho tantissima da fare, ma il tempo non mi preoccupa più come prima. So che avrò altre vite e quindi sono soddisfatta del procedere lento, ma costante. Ora morte e malattia li prendo come eventi che possano portare all’evoluzione. Certe situazioni non mi angustiano più e l’ospedale è diventato un luogo come un altro. Certo, lì, troviamo la sofferenza, quella fisica, ma fuori c’è quella psichica, spesso sottovalutata. L’uomo soffre ovunque, se non riesce a sciogliersi dalla morsa dei condizionamenti. Mi sono inoltre iscritta all’ AVOLVI, associazione no profit di volontari che prestano il loro aiuto a chi ne ha bisogno. Così, non avendo più l’incubo dell’ospedale, posso recarmi a dare il mio contributo come volontaria. Prima ero nel reparto oncologia, ora sono al reparto riabilitazione. Queste esperienze mi aiutano molto. Ascoltare gli altri, permette di farlo anche con me stessa; essere compassionevole con il prossimo mi dà sollievo; vedere che le persone ti apprezzano e non vedono l’ora di poter scambiare quattro chiacchiere con me, mi rende ancor più consapevole che sono in pochi nella nostra società ad ascoltare in maniera empatica. Quindi cerco di farlo sempre al meglio, mettendo in primo piano non l’individuo, ma ciò che è lui veramente: puro spirito! Miriam, dalla Sede della Lombardia