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La libertà dalla solitudine e dalla sofferenza in un anno di Counseling:

LUGLIO 2017 - CONSEGNA DIPLOMA E SEMINARIO DAL TITOLO "LIBERTÀ DALLA SOLITUDINE E SOFFERENZA"

La libertà dalla solitudine e dalla sofferenza sembra “giocarsi” sul campo della relazione che noi abbiamo con noi stessi. Le parole del Maestro hanno acceso in me una inquietudine di fondo che mi ha accompagnato nell’estate e mi ha consentito di osservarmi in varie situazioni e vedere come effettivamente tutto il campo di azione della sofferenza è al nostro interno: i fatti esterni non sono che mere occasioni e non sono la vera causa della sofferenza che sembra derivare da essi.

La sofferenza deriva dal conflitto che si genera tra ciò che illusoriamente crediamo di essere, le false aspettative, le identificazioni con le varie maschere di cui più volte ci ha parlato il Maestro, e ciò che la vita ci restituisce in termini di esperienze e relazioni.

Il Maestro perciò ci ha esortato a “non offenderci”, ossia a decidere di non rimanere offesi, lasciandoci chiaramente comprendere che l’ “offesa”, intesa come conseguenza emotiva distruttiva che si crea a seguito di un fatto che riteniamo per noi lesivo, dipende da noi, dipende dalla nostra evoluzione e dalla nostra capacità di umilmente prenderci la responsabilità del nostro sentire emotivo.

Il rimanere offesi, attaccarsi a quella sofferenza emotiva, che crea scorie psichiche e genera malattia, dipende pertanto dalla nostra scelta, o forse dalla nostra “non” scelta: la letargia nel non volere scendere nel profondo e conoscerci. Dipende pertanto dalla qualità della relazione che abbiamo con noi stessi.

È nostra responsabilità liberarci dalla sofferenza: Marco Ferrini dice “occorre rifiutarsi di registrare l’offesa”.

Questo rifiuto però non è soppressione o un “far finta di nulla”, poiché in questo caso si finirebbe con il fare scivolare nell’inconscio l’emotività distruttiva collegata al fatto e oltretutto porterebbe ad instaurare un relazione interiore con noi stessi fondata sull’ipocrisia. Non si tratta di negare la conseguenza emotiva dell’offesa oppure negare l’offesa stessa.

Anche in questo caso, il processo per non “rimanere offesi”, è un processo che porta ad una maggiore consapevolezza e conoscenza interiore: porta a una ulteriore liberazione in senso evolutivo. Si tratta infatti di 1) prendere atto del fatto, che abbiamo vissuto come “torto”; 2) riconoscere perché l’abbiamo vissuto come offesa e comprenderne quale parte della personalità (ego) è stata offesa; quale maschera o identificazione è stata colpita; 3) non registrare a livello emotivo l’offesa, ovvero non rimanervi attaccato ma lasciarla andare una volta compreso il processo che ha generato la sofferenza.

In questo periodo estivo mi è stato possibile verificare, in piccola parte, nell’esperienza questa verità. Mi appare ancora ora difficile pensare che l’atto esterno, il torto subito non sia esso stesso generatore della sofferenza. Mi riesce difficile vivere con naturalezza il fatto che la sofferenza sempre derivi dalla falsa percezione che abbiamo di noi stessi. Dalle false aspettative che ci siamo fatti o dalle proiezioni che noi facciamo sulla realtà esterna. Mentre per molte situazioni di vita mi sembra intuibile e chiaro, come ad esempio per tutte le offese che si fondano sul presunto obbligo del terzo di soddisfare nostre aspettative, non mi appare altrettanto palese come questo possa sposarsi con alcune situazioni che la mia vita professionale mi ha portato a vedere (es. la morte di un figlio per incidente stradale cagionato da un terzo. Comprendo che la sofferenza nasce dal distacco dal figlio e dalla distorta identificazione dell’essere spirituale con il corpo, dalla mancanza della vera comprensione della realtà trascendentale… ma come si può decidere in questo caso di non registrare l’offesa?... nel caso ad esempio di un figlio danneggiato da un vaccino?... sono interrogativi che stimolano la ricerca e possono secondo me trovare una risposta soltanto cambiando la prospettiva, ponendoci in una visione di affidamento all’amore misericordioso di Dio).

Ho sempre avuto l’immagine di me come di una persona non permalosa. Di una persona che si offende difficilmente e incline a non portare rancore. Effettivamente mi sembra di avere avuto poche occasioni per offendermi, tuttavia mi sono accorta che in quelle occasioni il mio lasciare andare era più legato alla non voglia di vivere il ‘pesantore’ emotivo di dovere chiarire le situazioni, di dovere affrontare le persone, più che a un effettivo lasciare andare, senza ferite e rancori. Non credo di avere mai affrontato l’offesa nella prospettiva offertaci dal Maestro.

Tuttavia nel corso dell’estate mi sono trovata ad affrontare due situazioni molto diverse l’una dall’altra ma che mi hanno permesso di meditare ed osservare i miei moti interiori e comprenderne le dinamiche. Ho sperimentato anche il senso di solitudine che porta la sofferenza e il vuoto che ti pervade e ti spinge verso il fuori, ti spinge a caricare l’esterno della responsabilità del tuo sentire.

Inizialmente ho visto muovere la mia difesa tipica “lascia stare, non pensarci più, pensa ad altro”, poi lasciando all’emozione la libertà di esistere ed esprimersi sono riuscita ad intravedere quale parte di me si sentiva offesa, quale parte era stata colpita. A questo punto effettivamente l’emozione si è smorzata e il dialogo da esterno a me è divenuto tutto interno: entrambe le situazioni avevano a che fare con il mio bisogno di “riconoscimento”, l’uno affettivo e l’altro “professionale”.

Ed ecco che allora mi sono risuonate forti e imponenti le parole del Maestro: “non abbiamo bisogno di riconoscimento esterno.. possiamo stare bene senza, e, se no, vuol dire che c’è una dipendenza e quindi una nostra fragilità e un cattivo rapporto con noi stessi. Occorre una buona relazione con noi stessi”.

Quanto mi ha allargato il cuore pensare che lo scettro del potere è nelle mie mani, sono io che decido e io che prendo in mano il mio stato emotivo: già ma non è per niente una passeggiata!

Certo che quando ho iniziato a meditare su questo mi sono accorta che io non sento di avere una vera relazione con me stessa. Che ho aspettative e immagini di me a cui voglio aderire e spesso non so neppure perché, che mi succhiano energia e mi lasciano spesso esausta.

E così mi è nato un interrogativo costante che mi stimola la curiosità e devo dire mi solleva verso frequenze più elevate. Che cosa vuol dire avere un buon rapporto con se stessi? Cosa vuole dire conoscersi?

Forse conoscere se stessi non è un punto di arrivo ma è il frutto di un processo di counseling continuo e in continua evoluzione, un complesso processo, che parte dall’osservazione di se stessi condizionati e limitati dall’ego operante e, con umiltà e tolleranza, procede con l’accettazione senza giudizio di quello che si vede, per scoprire gli schemi così da poterli superare e ritornare lentamente e con gioia a riscoprire davvero la nostra reale natura di esseri sat,cit e ananda.

Il processo di conoscenza dunque è una continua scoperta e apertura che non si limita ad individuare le maschere con cui ci identifichiamo ma ha l’obiettivo di giungere alla nostra vera essenza.

Penso che in questo anno di corso, le nebbie iniziali si siano parzialmente dissolte ed ho ottenuto risultati per me molto preziosi: riesco a percepire con più serenità i miei stati emotivi e ad attivare più facilmente l’osservatore interno. Prima, tutto era molto teorico e poco esperenziato. Ora sento che si è aperto un nuovo mondo di possibilità e conoscenze, tutte dirette a portare la felicità vera e duratura. La vera realizzazione del sé come essere spirituale.

Anche se sono solo all’inizio, ho dinnanzi un lungo viaggio, che come spesso il Maestro sottolinea è affascinante soprattutto quando lo si fa insieme ad altri compagni.

Marta, dalla Sede della Lombardia