Il tempo e l’eternità
La bellissima riflessione di Elisa Brigida nell’ultimo articolo del blog mi ha fatto molto pensare e mi ha ispirato nel proseguire i suoi argomenti così attuali.
La paura che molte persone vivono a livello globale in questo preciso momento storico, fa emergere l’angoscia che è dentro di noi da sempre, la paura della morte e di finire. I filosofi occidentali del ‘900 hanno individuato che la profonda angoscia dell’uomo è legata alla percezione di venire dal nulla e andare verso il nulla e questa è la presa di coscienza dell’uomo che vive nella Storia. La nostra cultura occidentale dà molta importanza alla Storia e la nostra vita sembra essere intrappolata e stritolata dalla Storia. La cultura indovedica invece parla dell’illusione di Maya, l’illusione della Storia, della vita nel tempo. Ciò non significa che la nostra vita nella dimensione temporale sia irreale, tutt’altro. Krishna nella Bhagavad-Gita esorta Arjuna ad impegnarsi, prendere delle decisioni e vivere consapevolmente la sua vita temporale. Ammonisce piuttosto a non identificarsi nella sua vita temporale, perché illusoria, impermanente e destinata a finire; il suo messaggio piuttosto indica il pericolo dell’idolatria di fronte alla Storia.
L’angoscia della morte allora è un rito di passaggio, un momento iniziatico in cui l’uomo passa dall’ignoranza sulla sua condizione alla presa di coscienza che la Storia è priva di valore ontologico. I filosofi occidentali cosa han fatto, da Heidegger in poi? Si sono fermati all’angoscia esistenziale e si sono adagiati e accomodati in un quasi compiaciuto nichilismo e pessimismo. Ma non ci si ferma in un rito di passaggio! Non si salta sul fuoco a metà. Il rito di passaggio va attraversato e compiuto, per morire come uomo temporale e rinascere come uomo cosciente che non si identifica, non si illude che la realtà sia solo quella che vediamo.
L’insegnamento della filosofia indovedica non assomiglia allo spiritualismo che crede che la vita “aldiquà” sia sacrificio e sofferenza e quella “aldilà” beatitudine e bellezza, demonizzando la materia come peccaminosa. È la nostra coscienza a fare la differenza e con la nostra consapevolezza viviamo qui con il corpo e vivremo senza corpo da un’altra parte, quindi questa consapevolezza va affinata perché quella sì che è permanente. La cattiva azione secondo i saggi indovedici, non consiste nel vivere nel Tempo, ma credere che non esiste nient’altro al di fuori del tempo. Farsi divorare dalla Storia disprezzando l’eternità genera un’angoscia senza scampo, che non fa crescere perché non permette il passaggio di trasformazione.
Paola De Paolis Foglietta