Come raccontare una storia (e scrivere la tesina finale)
PAOLA DE PAOLIS FOGLIETTA
Per diventare counselor è necessario saper raccontare una storia: la propria.
Se non lo sapete fare, occorre desiderare di imparare a farlo, altrimenti lasciate perdere il counseling. Desistete.
A cosa serve impegnarvi a rovistare tra le vostre emozioni, a cui non sapete che nome dare. Ad inciampare in frasi che iniziano con il “perché”. A cercare di capire cosa affligge una persona mentre vi conduce nella gincana delle sue difese e bugie involontarie, mentre magari voi avete il mal di testa? Perché darsi tanta pena ad ascoltare le storie degli altri se voi non sapete raccontare la vostra?
E badate bene qui non stiamo facendo la gara di quale delle nostre vicende sia più avventurosa o più commovente o più triste. Raccogliere i fatti della propria vita e infilarli come perle di una collana non sarà abbastanza, non si tratta di un inventario di fotografie con la data in calce. Non è instagram. Non importa nemmeno essere abili narratori dalla penna argentina e nemmeno narratori di consumata abilità teatrale.
Tutt’oggi io ancora non ci riesco bene. Scrivo, accartoccio e butto. Riscrivo e forse capisco qualcosa della vita che io stessa ho vissuto. La prima volta l’ho riassunta in tre righe. Mi sono resa conto che la mia vita è noiosa quasi come quella di Jane Austen - che viveva con la sorella entrambe zitelle, mai uscite di casa - che però aveva il genio della scrittura e io non posso nemmeno avere il conforto di essere un genio incompreso. Oltretutto i “geni” hanno spesso avuto vite difficili e sfaceli relazionali, essendo appunto sociopatici o isolati dal resto del mondo, mi viene in mente ora solo Schopenauer Nietzsche , Einstein , Steve Jobs... Quasi che il genio, quello che influenza il destino dell’umanità, vuole che gli si sacrifichi l’anima e la felicità in cambio. Quindi rallegriamoci di non essere geni, siamo esseri fortunati.
Ma torniamo a noi. Vi starete chiedendo cosa mi sia venuto in mente per alzarmi questa mattina con questa idea fissa dello story telling, che poi – diciamolo – non è niente di nuovo, ma la vera domanda è: in che modo l’autobiografia è connessa con il counseling?
Il racconto dei fatti della nostra vita a voce alta o scritti a voce bassa, dà una forma inaspettata agli eventi dai quali emergono emozioni antiche e a seconda del momento della nostra vita in cui cominciamo a scrivere sentiremo significati diversi, emergere fantasmi, evocare bolle di colpe non rielaborate su cui avremo la possibilità di lavorare. Occorre prima di tutto diventare counselor di noi stessi, guardando la nostra vita immersa in questo game di Maya, agita con il nostro corpo la nostra personalità: il nostro avatar. Coraggio, è un gioco.
Prima regola, come sempre, creare una connessione empatica (con noi stessi). Non sentiamoci ridicoli, non insultiamoci, non umiliamoci, quelle voci che sentiamo emergere dal profondo non siamo noi, sono quelle che si sono strutturate in una esperienza infinita di vita, ed in particolare dalla nostra educazione. Raccontiamo come se non fossimo noi e troviamo il fil rouge del progetto che sembra intravvedersi nella trama del nostro destino. Coincidenze, eventi che si ripetono, coazioni a ripete che nascondono “fisse”. Che possa la nostra anima avere coraggio e compassione!
Devo anche mettervi in guardia sul fatto che oggi tutti scrivono autobiografie e spesso sono tra le cose più penose si possano leggere. Quelle dei vip che arrivati a fine carriera si raccontano con aneddoti, che tutti hanno già letto nei social o eventi di cui non gliene frega niente a nessuno. Oppure quelli che arrivati alla mezza età decidono di raccontarsi, credendo che la loro vita abbia qualcosa di interessante, forse per loro magari, ma non per gli altri. Una volta gli uomini si compravano macchine sportive e si vestivano in modo giovanile, frequentando gente di vent’anni in meno, comportamento disdicevole, ma è sempre meglio utilizzare il tempo così che scrivere un’autobiografia noiosa. Quindi se siete in dubbio sul cosa fare, regolatevi.
Qui non si tratta di scrivere un romanzo autobiografico, ma di capire la nostra missione, le nostre frasi mentali che ci hanno portato dove siamo oggi, le convinzioni che ci fanno alzare la mattina, i condizionamenti che ci fanno sentire dei fichi quando invece siamo delle mele fuji (o viceversa). Rileggere i fallimenti, che hanno sempre un dono magico per la nostra vita,:ogni umiliazione e fallimento nascondono una perla rara utilizzabile per costruire una storia. L’abbiamo usata o l’abbiamo seppellita? O siamo ancora lì a leccarci le ferite per fatti accaduti tanti anni fa? Possiamo ora chiederci come utilizzare quel tesoro insospettabile e riattivare la carica pedagogica che i nostri errori hanno avuto. La vita non è come dovrebbe essere, è come la si affronta (Virginia Satir), così vale anche per la nostra storia, più che i fatti è il modo di narrarli a renderli unici. Questo modo di narrarli racconta che tipo di esperienza esistenziale abbiamo fatto, che livello di autocoscienza abbiamo maturato. Non si potrà non essere auto-ironici, perché non siamo più noi, il distacco è importante. Proprio come nel colloquio conseling: empatia e distacco emotivo. Diventare paradossali ci renderà più affascinanti.
Quindi proviamo di nuovo, riscriviamo la storia e dove gli eventi o i pensieri dolorosi sembrano ancora senza un significato chiediamoci: cosa posso fare di più? Cosa posso fare di diverso? Oggi.
Non ricordo quale teologo o religioso cattolico ha detto: “se non sei umile sarai umiliato”. Lo so che l’effetto domino associativo nella nostra mente consegna a questa frase un certo sapore vendicativo e punitivo. Invece semplicemente significa: se non impari a conoscere te stesso volontariamente - ad essere cosciente a te stesso- la vita ti porterà nella direzione della consapevolezza, così che chiameremo sofferenza quegli eventi che ci porteranno a conoscere noi stessi. Il dolore c’è, ma la sofferenza ce la mettiamo noi.
Siamo sempre liberi di scegliere come stare, anzi è l’unica libertà che abbiamo.